
Racconta Igort che Joe Sacco riassumeva la questione semplicemente così:
“Se racconto un certo fatto particolare accaduto a Gaza in un articolo, avrò un pubblico di trecento lettori, studiosi o cultori della materia. Se lo disegno posso raggiungere centinaia di migliaia di persone”.
Parlava per esperienza diretta l’autore di Palestina (1996, Mondadori), uno dei più importanti autori mondiali di graphic novel.
Una ricetta semplice, approdata in Italia poco più di dieci anni fa, quando i libri a fumetti erano quasi del tutto usciti dalle librerie e i loro fratelli, considerati da sempre minori, stentavano a sopravvivere nelle edicole.
Una ricetta vincente: si stima che oggi in Italia il pubblico dei lettori del graphic novel superi i nove milioni, l’unico comparto editoriale in costante espansione.
Igort ha seguito passo passo questo percorso, da autore tradotto dal Giappone agli Stati Uniti, e da editore con la fondazione ventidue anni fa della Coconino e, nel 2018, della Oblomov edizioni. Negli ultimi mesi – con la guerra in Ucraina – ha avuto una nuova conferma dell’efficacia della ricetta di Joe Sacco: i suoi “quaderni”, russi e ucraini, sono diventati per migliaia di lettori opere fondamentali per comprendere la realtà in atto. In Francia sono adottati in molte scuole, con la stessa dignità di saggi storici.
La chiama “sindrome di Paperino”. È, se possibile, una semplificazione ulteriore della ricetta dell’autore di Palestina. “Se tutti ritengono che un prodotto, come generalmente era ritenuto il fumetto, sia roba da minus habens, allora l’autore ha il grande vantaggio di potersi proporre nel modo più diretto, senza barriere, senza incontrare difese: può raggiungere i lettori, toccarli, prenderli per mano”.
Come ben sanno quanti si sforzano di raccontare la realtà, la semplicità è un obiettivo complicato. La strada per raggiungerla è disseminata di ostacoli e può capitare, per esempio, di dover disegnare e ridisegnare una scena di tortura per liberarla dalla memoria patinata della sua rappresentazione e restituire a chi la vede il dolore della vittima. Oppure può capitare di arrabbiarsi con autori talentuosi ma un po’ frettolosi che aggirano le difficoltà raccontando più che la realtà sé stessi. Questo dà l’idea della complessità della sfida che il Premio Marina Garbesi propone.
Se infatti esiste un’ampia produzione nazionale e mondiale di storie degli ultimi, dei vinti, dei fragili, c’è pochissimo sui disabili. D’altra parte, se è già complicato raccontare il prossimo, empatire, acquisirne il punto di vista, può apparire un’impresa impossibile acquisire il punto di vista di chi non è in grado di comunicarne uno. A meno che non si abbia la capacità di dare al puro bisogno di esistere il valore di una visione del mondo.
Durante la manifestazione per la presentazione del Premio, Valter Galavotti (uno dei relatori assieme allo stesso Igor Tuveri, a Carlo Lucarelli e a Maria Novella De Luca) ha raccontato la storia di di B.S, una donna tetraplegica che, nel 2016, indignata per l’esiguità del contributo dello Stato alle persone colpite da invalidità grave, avviò una vertenza giudiziaria che si concluse con una sentenza della Corte costituzionale che triplicò la cifra per tutti. Storia complicata – di atti, ricorsi, cavilli – che ha il grande pregio di rendere chiaro che il luogo d’incontro tra il mondo dei “normali” e quello dei più fragili tra i fragili è la difesa e l’applicazione dei diritti.
La vicenda di B.S. sarà tra le prime a entrare nell’officina del Premio. Perché questo, sottolinea Igort, è il lavoro da fare oggi: raccogliere storie, proporle agli autori. Operazione difficile, spiazzante, come ridare senso a espressioni idiomatiche abusate. Questo è infatti “un disegno ambizioso”.