Quando un diritto è effettivo i suoi titolari non devono avere la necessità di rivendicarlo. L’articolo 16 della Costituzione sancisce il diritto di ogni cittadino di circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale.
Se per spostarci da una città all’altra o da un quartiere all’altro dovessimo chiedere il permesso, quel diritto non sarebbe più tale.
Sarebbe una facoltà subordinata alla generosità, al buon senso, a volte alla pietà, di quanti possono determinare le condizioni perché la circolazione sia libera: dai sindaci agli albergatori, dagli operai dell’Anas ai ferrovieri.
È questo lo stato di attuazione degli articoli della costituzione che sanciscono il diritto dei disabili a un’esistenza dignitosa.
Quando un bambino autistico diventa un ragazzo, troppo alto e troppo grosso per salire sulla giostra o sullo scivolo, il parco dove ha sempre giocato non gli appartiene più.
Anche se ha un perfetto controllo dei movimenti, sa aspettare il suo turno ed è attento, potrà frequentare quel parco solo negli orari di minor affollamento, e anche in quei momenti i suoi accompagnatori dovranno accertarsi che i genitori dei bambini normali non si allarmino.
Dovranno rassicurarli, consapevoli del fatto che non sempre le rassicurazioni bastano. Ci sono sguardi che disconoscono un diritto con maggior efficacia di qualunque discorso.
Per verificare l’esistenza di un diritto è sufficiente esaminare le leggi, per verificarne la condivisione è necessario incrociare gli sguardi. Si tratta di un genere di monitoraggio fuori dalla portata delle indagini demoscopiche.
È possibile domandare a un gruppo di cittadini rappresentativo dell’intera popolazione se riconosce il diritto all’uguaglianza (e accertare che lo riconosce la stragrande maggioranza degli interpellati).
È impossibile verificare in che misura ciascuno di essi è capace di agire di conseguenza nella vita quotidiana. Non è un caso che la locuzione “Io non sono razzista, però…” sia uno dei più frequenti incipit dei discorsi xenofobi.
Il Premio Marina Garbesi si propone di diventare un laboratorio per l’analisi e la modifica degli sguardi che inducono la rivendicazione dei diritti.
È un’impresa che ha molte affinità con quella di non far percepire i nuovi italiani come stranieri. Un concetto complesso come lo ius scholae, è semplicissimo, e anzi ovvio, per quanti hanno un bambino che frequenta una classe multietnica. A volte la sintesi arriva come una folgorazione.
Magari perché tuo figlio, per indicare in un gruppo di bambini il compagno di classe giunto dall’Africa, non ti dice “È quello con la pelle nera” ma “È quello con la maglietta blu”. La stessa sintesi folgorante può, ma è molto più raro, compiersi in un parco giochi. Può capitarti di vedere lo sguardo sgomento di una madre volgersi in un sorriso divertito quando quel ragazzone di tuo figlio è scoppiato in una risata per la prodezza del suo bambino.
Gli amici del Premio Marina Garbesi sono quanti riconoscono l’importanza degli sguardi, sono capaci di incrociarli e di leggerli, sono curiosi di comprenderne le ragioni.
Dietro ogni sguardo si nasconde il conflitto tra il diritto proclamato e il diritto riconosciuto. E in ogni conflitto c’è una storia che vale la pena di raccontare.